martedì 25 maggio 2010

Perfect ending.

Hurley & Libby: The End of Lost da Igor Moretto.
Per dire addio dopo sei anni, bisognerebbe impiegare parole tanto giuste quanto correttamente e indiscutibili vengono pronunciate le battute della fine, recitate da dentro, a richiamare ogni qual volta corrispondenze più che adeguate paralizzanti. L'epilogo, esclusivamente mio, è una circolazione di musiche continue e immagini velocissime, menzioni a un dove e a un quando solo adesso, dopo un atterraggio disorientante, ben precisi e resi nitidi da contatti subcoscienziali tutti commoventi. Un concerto, un tempo dove tutti insieme potranno ricordare, lasciare andare il passato e procedere oltre la consapevolezza delle proprie sorti, compito mica facile per un prosieguo lasciato intendere come non dei più leggeri. Ma questa, d'altronde, è la pasta di cui sono fatti certi personaggi che, irraggiungibili in termini di sintomaticità, hanno coadiuvato a lungo, o da sempre, con la fatica dell'agire secondo un senso; poco importa se deciso da altre (id)entità, poiché in ogni caso mossi da spirito encomiabile. Il ritrovo è momento fra i più belli, perché, pregno di significato, assume le forme di una messa, di una cerimonia commemorativa di quanto, in sei profondi periodi, questi sopravvissuti hanno saputo regalare secondo schemi di totale ingegno, amore e fantasia, mitizzando un mondo che chissà per quanto agognerò di trovare. Incredibile il merito per una creazione immensa tanto da segnarmi internamente, da provocare lo sconforto ad ogni finale di puntata per una vita che straripa di mediocrità. Basta questo per riconoscere a parole la gratitudine oggi piena e assoluta? Molto probabilmente no, ma esprimermi diversamente mi è impossibile; ineffabile è infatti il risultato, la mistura di sensazioni e sentimento che sgorga in queste ultime lacrime d'addio. Al termine, si conclude l'avventura nel più perfetto dei modi, perché tutto ciò di reale muore, e per fortuna la fine è l'inizio di un ricordo intramontabile.

Music by: Michael Giacchino
Photo by: Igor Moretto

mercoledì 19 maggio 2010

What that island means (almost the end).

Lost & Found da Nestor_PS.
Un risultato scarso è trascorrere tempo fra la gente che si da per viva, mentre tutto si configura come apparente e sfocato, illusorio come quando, nelle più classiche delle favole, si scorge e agogna all'infinito quell'orizzonte per poi toccarlo con mano di cartone. Curioso è che in questa stessa farsa vi siano parvenze di verità, rari attimi di spavento che portano con se sensazioni di altri mondi, magari paralleli, forse irraggiungibili per quelli che attendono pazientemente la manifestazione, lo svelamento del proprio scopo, ignorando di invecchiare e, con ogni probabilità, di morire di quest'attesa. Ne sono un esempio i ripescaggi, o meglio, l'effetto di questi ultimi sui precipitati, che ben oltre lo stupore e la contentezza procede. Ora, chiunque si sia sentito ripescato almeno una volta nella vita, può innegabilmente sfiorare il quoziente di tal tremore, sopportato a fatica, martoriati dall'inspiegabile impossibilità di agire sensatamente, secondo autocompiacimento insomma. Certe volte mi pare d'intravedere tutto questo, la realizzazione dei propri scopi, nella salvazione, e allora intendo questa (la presente) come una dimensione di prova, di verifica, una sorta di test delle affinità successivo allo svezzamento, tutto in funzione di un parallelo che avrebbe le storpie forme di un'allucinazione. Quindi in altre ore, abbandonate momentaneamente le teorie spiegate, torna al mittente disimpegnato di una volta, la presunta giustezza di luoghi passati, solamente adesso (ri)letti quali destinazioni definitive per il sottoscritto, con la contraddizione però subito dietro l'angolo. E' dunque ancora l'ignoto a farla da padrone, l'insoluto dietro il velo di Maya, il groviglio di un'esistenza buttata seguendo gli schemi migliori per liberarsene, rimanendo perlomeno disincantati di fronte al facilmente manifesto, instancabili sognatori di scappatoie premature per un differente aldilà. Non resta che perdersi vanamente, dimettersi dal resto con la finalità di abbandonarsi al proprio destino, un domani riuscendo sempre a soffrire ancora di gioia ad ogni pensiero indirizzato alla metafora più bella di sempre.

Music by: Michael Giacchino
Photo by: Nestor Ps

giovedì 8 aprile 2010

Happily ever after.

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Esistono alcuni episodi che, unici, lasciano addosso una commozione e uno sconforto tali da far risaltare la pochezza della propria vita, intera o attuale che sia. Essi dispongono di un'intensità talmente elevata da rendersi indispensabili, portando il sottoscritto a una possibilie avidità e non di meno a una concreta dipendenza da seconda visione nell'immediato. Sono fatti per essere incanto, per manifestarsi sogno di chi assiste a questo concerto di musiche, espressioni e immagini, di chi per settimane non aspetta altro che il risultato esatto a fine puntata, con tutte le variabili e le costanti del caso, con lo stupore stampato sulla faccia allo scadere dei secondi, quando ormai, ancora oggi, c'è chi scorda tutto questo in funzione di una conoscenza presunta e spacciata per troppo matura. Pari passo con la realtà, meno luccicante sopraggiunge l'estate o comunque la stagione calda dopo il gelo di certe introduzioni al buio, e lo fa secondo le sue maniere e i suoi colori tipici, persino secondo i suoi immaginabili profumi qui avvolti nel mistero che si srotola come un tappeto purpureo ricco di (ri)soluzioni o quanto meno di indizi, sempre e solo di contorno al fascino irresistibile di una scatola magica. Non soltanto più incontri "accidentali", ma ricordi e addirittura prove del fatto che il destino è uno solo, anche per tutti quelli che cercano di evaderne finendo solo per rimandarne l'appuntamento. Termina in questo modo il capitolo della storia più bella mai scritta, con l'affidamento di un nuovo compito nelle mani proprie di chi già una volta era solito salvare il mondo schiacciando un pulsante. Con le medesime apparizioni si conclude dunque (o quasi) lo stremante ciclo di viaggi nel tempo, soccorsi e rincorse facenti parte del trascorso di un uomo, il cui finale si preannuncia inedito, globale e comunque ricco di nostalgia. Adesso agli sgoccioli, più affezionati che mai, in esaurimento verso l'ultimo tremore.

Music by: Michael Giacchino
Photo by: ABC

sabato 27 marzo 2010

My big white, o anche l'anno del nevone.

En hiver da CatsFive.
Si sta sciogliendo tutto intorno a me. Un'intera stagione muore con l'avvento del clima mite e della mia partenza; non c'è più bianco a ricoprire la balconata e a sovrastare lo spazio. Inutile dire che lì dentro, nel mezzo, si stava proprio meglio, stazionari nel vero senso della parola, a sentirsi soli come invecchiati soli e immersi nel famigerato e tanto personalmente agognato grande bianco. Quest'ultimo, più che un semplice ambiente, costituisce in se una collezione di temperature, musiche e visioni andanti a formare l'atmosfera perfetta per il sottoscritto, riscontrabile solo ed esclusivamente in posti speciali, mai ostili, dove all'inizio basta coprirsi a modo per poi ritrovarsi, una volta terminato il freddo, con l'abitudine persa per la giacca corta che inevitabilmente viene sù. E' stato l'anno del nevone, un anno insolito, assente da decadi e decadi probabilmente, rigido a più non posso tanto da forzare a un rivestimento casalingo doppio o addirittura triplo, ma con che invidiabile rispolvero del momento di questi tempi grigi, affollati nell'ora di punta e perturbanti dopo le cinque. Estese note pizzicate al dulcimer, tormenti campionati e scongelati pronti, erano questi gli accompagnamenti glaciali delle ore post-doccia, quando altrimenti scorrevano tiepide le produzioni italo-svedesi registrate alle baleari, stile l'ultima, l'uscita numero tre, effimera e squisita almeno quanto l'esclusa 'My Way', fra le tracce al contatore probabilmente la seconda sul podio. Rimane solo il ricordo di tutto questo mentre saluterò con la mano l'inverno da un aereo, entrando chissà in quale ambiguo e ambivalente habitat, sporco da lavare di giorno in giorno senza poter evitare la difficoltà di specchiarsi e riconoscersi diversi, impossibilitati ad agire secondo spontaneità. Bella fregatura.


Music by: jj, Roggy Luciano
Photo by: Cats Five

domenica 21 marzo 2010

Tons of friends.

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Prendere l'ultimo dei Crookers e sfoltirlo dimezzandolo è cosa buona e giusta per ottenere l'album dell'estate, esordio maturato del duo italiano meno insuperbito, con la totalità delle tracce supportate da un popò di artisti, ospiti illustri nonché tonnellata di amici. Il taglio netto, istantaneo al finire del riciclaggio 'Remedy', è dovuto all'insipidezza dei brani appartenenti alla seconda metà della portata, assaggiata qua e là già in passato, o molto probabilmente al valore delle collaborazioni della prima dozzina di prossime hit mancate. Quali sono questi nomi? Girano in rete da non so quanto, e, dopo una lunga attesa, la verifica con le proprie orecchie eccome se appaga. I Soulwax a dare il via, Kelis e la crème dell'rnb dell'anno scorso a seguire, ma soprattutto il ritorno di Ròisìn Murphy, lontana dalle luci della ribalta da anni, e la scoperta Rye Rye che sinceramente per conto mio spaccherebbe i culi a tutte quante (M.I.A. e Uffie comprese). Quest'ultima, coetanea del sottoscritto, dal flow più che aggressivo, canta dell'hip-hop cambiata su di una base che, ancora in corso, muta in bomba ad orologeria dubstep manco non avessimo capito quanto a quei due piacciano certe sonorità del momento: una corona per la regina delle combinazioni. Lo stesso più o meno capita con la bambola irlandese dal gusto inconfondibile anche in un pastone come questo: 'Hold Up Your Head' e ancor di più 'Royal T' (con vocal e synth da capogiro), retrò e rilanciate attuali, suonano pagate care con la prova del contrario negli show trasformati in dj-set, del tutto inusuali per una stella del genere. Con l'aggiunta di una base "rubata" e preparata in francese per Yelle, il recupero di 'Put Your Hands On Me' e l'apporto nostrano di Dargen D'Amico (inclusa la bonus track tormentone), il disco basterebbe già a tutti quanti, e invece chi più ne ha più ne metta, ma un ulteriore elenco (in negativo) risulterebbe alquanto inutile. Ciò che rende e non si vede è in realtà il missaggio ottimale che, alla pari del suono reso limpido e pulito rispetto agli albori, fa sì che un prodotto come questo superi di gran lunga qualsiasi trovata commerciale dalle (presunte) pretese underground. Quell'acerba sufficienza è dunque rimangiata per intero e già ampiamente digerita dopo un assiduo weekend di dipendenza da ascolto. Il verdetto è un figurone per il quale c'è da essere orgogliosi solo a leggerne la tracklist. Italians do it better.


Music by: Crookers
Photo by: Danxzen

venerdì 12 marzo 2010

Dr. Linus.

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Se, fra i dispersi, esiste personaggio in grado di risollevare le sorti di una serie andata storta dopo un principio perfetto e ineluttabile, quello è Benjamin Linus, ingrassato e menomato di una certa ferocia compromessa questa volta dai sentimenti, se quell'isola avesse abbandonato. L'atto si manifesta perciò sottoforma di redenzione, raggiunta mediante la doppia sfuggita da quella preferenza di spietatezza fine esclusivamente a se stessa: da un lato con il riscatto per la vita salva e il futuro roseo di Alex; dall'altro con la scelta (mai incondizionata) di inimicarsi la fonte di tutto il male, già predatore di altri svariati e facili successi. Il dottor Linus sarebbe stato davvero una grande figura, con le sue parole gentili per ogni benvenuto, con le manie proprie di ogni uomo che si sia dato per vinto, tristi e comiche al tempo stesso, con le pesanti cure, sopportabili a fatica ma indeclinabili; una personalità che solo al momento comincia a rispecchiarsi in quella del vero pentito, finalmente accettato e reso uno degli altri a (quasi) tutti gli effetti. La maestria sta però altrove, o meglio in altrettante poisizioni. E' infatti l'inoppugnabile e monumentale resa del tutto che ancora una volta imbambola me e chiunque altro percepisca vero freddo quando le note finali toccano l'animo rievocando memorie e, ora al grande epilogo, il susseguirsi di tutto ciò che è stato, in modo pari a niente, in tutta la sua esclusività così com'è, semplicemente disarmante. Al giro di boa l'attesa, immaginata spasmodica, si ammortizza in un lento e corto sfinimento, la cui intensità sfugge dall'essere in discussione, sicurezza caratterizzante fin dal lontano inizio. Sono dunque questi gli sgoccioli, e devo farci l'abitudine più che accettarlo. Così, a questo modo spero e mi propongo di tornare con sincronica puntualità ad esprimere le risonanze libere dei prossimi, e contati, eventi, con l'augurio che proseguano sulla linea dell'attuale. Linus is redeemed, Linus is one of us.

Music by: Michael Giacchino
Photo by: ABC

martedì 2 marzo 2010

The western blue.

*§* da Cammy Lou Who.
Qualcuno ha finalmente trovato il "western blue". Erano mesi di ricerca assidua e ammalata, eppure salvezza è stata, perché con tutte quelle pillole, medicine senza effetto, il proseguir sarebbe diventato tormento, tumore e poi sempre peggio. Quindi ora è ripresa, ma essa (con lo scorrere delle lagne) si manifesta diversa, non per forza sotto il nome di "ritorno"; da acerba che è al primo minuto matura caldamente verso una nuova affermazione di stato, un'evoluzione, un'involuzione, una trasformazione, un cambio di rotta, un prequel e non un sequel della mente vecchiarda dell'amico Mac, un pò alienato come al solito quando si tratta di essere "solisti", e quindi se stessi però in musica, senza badare all'etichetta appesa quando in gruppo, pieni della voglia di più clamore, si spinge per diversificare il rumore. Intendo dire che il paziente affetto da demenza di una volta è ancora in pieno trauma, forse appena all'inizio dello stesso, con le orbite spalancate e fisse sul vuoto e il sozzo camice bainco a raccogliere tutti gli acari dell'ospedale. Perciò, è in questo lavoro che la lucida follia di un tempo prossimo risulta latente, in crescita sotto le effettive manipolazioni sonore di quello che potrebbe definirsi un esperimento dal brivido d'epoca: battiti muti e mutilati, a volte invisibili; chitarre sporche da far schifo se non prive della medesima accezione; ammucchiate di storytelling macabri e altrettanti di crimini reminiscenti quanto impressi a fuoco nella memoria. Dunque, se lo scorso già faceva paura grazie a quel suo ghigno istrionesco (opportunamente reso "melodioso", saltellante e cantabile), questo qui, quello che rimette il blu dell'ovest americano, terrorizza da fermo suonando la propria musica maltrattata, sfregiata, grattata e insudiciata a più non posso, in uno stato di primitiva infermità mentale lungo mezz'ora e poco oltre. Ma quel che scorgevo nelle perle del passato, lo osservo rosa tuttora al tramonto o all'alba del giorno dopo: 'Lava bones' è l'affresco dipinto coi colori che solo in seguito verranno strillati dappertutto, mentre la title track contorce e da la scossa pari modo ai deliri già provati da sconvolti con la bava che cola a terra. I flow da tremito ci sono, i macchinari e la presenza (con)dannata anche. Non manca davvero nulla per poter assistere, dopo diciassette mesi, alla nascita del terzo bambino rabbioso di Mac Blackout.

Music by: Mac Blackout
Photo by: Cammy Lou Who

sabato 27 febbraio 2010

There is love in you.

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Per poter intonare, ballare e godersi l'ultima creazione di Kieran Hebden non è necessario masticarla a lungo quanto ho fatto io. Avrei potuto scriverne e rilasciarne il gusto e le risonanze libere addirittura durante il corso della sua prima riproduzione, bendato da un solo occhio (od orecchio) poiché già preparato da una 'Love Cry' di due mesi prima, surriscaldata abbastanza da volerne sentire il missaggio col resto, ma ho perso l'attimo, quindi mi riparo dietro una scusa non propriamente concreta e definita avente come protagonista il susseguirsi di tempi morti e l'aumentare della pigrizia a corrergli subito dietro. Arriva perciò solo adesso il momento di questo disco, che è il risultato o l'equazione fra la facilità di ascolto e l'incomprensibilità di composizione: opera di maghi. Sprigiona colori, visioni di danze private, di lap dance in versione illustrata e animata, sprigiona echi ed eliche risonanti tutto intorno a loro ('Reversing'); che diavoleria, che laboratorio di brevità fatte suoni scoppiettanti, crescenti di volta in volta a riempire uno spazio che altrimenti starebbe vuoto, probabilmente sospeso, perché, con tutta franchezza, pare che il portento britannico assembli musiche come se si trattasse di lego giocattolo, a caso ma con una compostezza e una precisione impeccabile, ricercata, infallibile se l'intento è di colpire e mettere a terra. Da sdraiati risulta infatti più agevole sognare e seguire le vibrazioni soniche che da informazioni prendono forma e diventano caramelle, senza escludere le tortuosità di un sogno, sempre poco vigili così da rimanere sorpresi e appagati il doppio ad ogni rivelazione. E in questo concentrato extrappetitoso, di rivelazioni ce ne sono tante, alte quanto vette, oltre alle già citate. Sprecherò buone parole chissà da chi contate, lasciandomi accarezzare troppo ed emozionare oltremodo anche questa volta? Come lo si potrebbe permettere di fronte a tanta proporzione e giustezza? Qui il capolavoro (sfiorato) si esaurisce sancendo la fine del sonno e pure della veglia. Come al solito il ricordo non più vivido del viaggio appena terminato è solo brandelli, poco si può scavare nella memoria seppur il segno da qualche parte, lecitamente inciso, risieda. Four Tet scrive altre nove tavole nello spazio aperto e con una penna di quelle invisibili.


Muisc by: Four Tet
Photo by: IHousephilly

giovedì 18 febbraio 2010

Let the right one in.

Let the Right One In da martin francisco.
Una fantastica storia bianca in slow-motion. L'orrore per questa volta può pure starsene a casa. Chi ha notato questa pellicola per il gusto di godersi qualche attimo di paura, aspetti il prossimo remake statunitense perché ha sbagliato film. Perché sarà un altro film. Completamente. In questo, si tratta infatti la drammaticità del linguaggio come convenzione, della morale che all'estremo ottenebra i rapporti empatici, clandestini e sovrumani di due ragazzini e del loro più che particolare amore, con l'aspetto orrifico che è soltanto scenico (di tributo) e di contorno a tutto il resto. Una creazione che ha dell'invidiabile, amabile perché irreale ma efficace con violenza nel contemporaneo (svedese); un autentico contrasto con la c maiuscola. Di toni e di temperature, di suoni e di emozioni, di parole e di silenzi, e di gesti, ad imbottire di equilibrio la favola più rivoluzionaria mai scritta. E non si tratta di uno sbalordimento ingiustificato: durante la sua visione non è difficile accorgersi della delicatezza che sconfina oltre le atmosfere e i paesaggi, inondando di neve e di sofficità l'animo dello spettatore; ugualmente interrogarsi sulla presunta, ma reale, irruenza di certe dinamiche, che hanno un tema forte come quello dell'impossibilità alla propria base. Un accompagnamento magistrale fa poi da colonna sonora di certe scene mute, a coprire i silenzi con una vastità d'audio calibrata, protagonista e tanto lieve quanto le immagini che nel mentre scorrono, persi ad osservarle abbagliati da un grande e immenso bianco vivibile che da sempre affascina. Piacerebbe tanto tuffarcisi dentro? Forse lì per lì, perché poi tutto perderebbe di una certa e ancora indefinita "comodità di osservazione", irraggiungibile se a riconoscere se stessi si è in prima persona. Quindi, per il momento, è troppo confortevole questo alienante punto di vista per poter cambiare idea contro la natura attuale delle cose, soprattutto con un arrivo del genere. Inaspettato, ribolliva in disparte assoggettato da scarsi pareri e da un preconcetto inspiegabile (forse tutte quella nera e sbagliata "pubblicità"); che riscatto in centonove minuti, abbondante se non pieno da sbancare ed affermarsi preferito con la partecipazione unanime di tutte le componenti. Piccolo capolavoro.

Muisc by:
Johan Söderqvist
Photo by: Martin Francisco

martedì 9 febbraio 2010

Milano.

Naviga. da Sutura +.
All'inizio di ogni nuovo anno mi capita spesso di scoprire qualche bel mattone di musica cantautorale dell'anno prima che s'impone deciso e incontrastato per il resto dei mesi almeno fino all'estate. E in ciascun caso il riconoscimento di una possibile immedesimazione mi è particolarmente difficile, nonostante l'immedesimazione divampi già al primo ascolto. Succede a causa dei dannati testi che questi si dilettano a scrivere; storie dilaniate, vicine e lontane per ciò che dicono, più equivocabili che altro; la "libera" interpretazione, infatti, mi lascia in bocca un gusto di peccato che ci metto due secondi ad accorgermi di me dalla parte di chi non capisce anche se non è così. Un problema che mi si torce contro volentieri, per il quale vedrò di rimediare senza la rinuncia a certe proprietà individuali. La musica, questa musica, è comunque anche altro, giusto o sbagliato che sia. Abitare Milano non mi appartiene, io sono più da provincia, dove la dispersione è impossibile e dove l'atmosfera si fa meno diversificata, eppure non mi è difficile avvertirla per quello che è: perturbante. Omaggio a un nome proprio di città, alla grandezza dei suoi quartieri tanto playground di giorno quanto selvaggi e disagevoli di notte, non meno importante, a chi ci vive facendo conoscenza con tutto questo dalla nascita o da quando lo vuole. Il godimento è spalmato omogeneo e la compenetrazione in alcuni versi avviene automatica, davanti allo specchio a togliersi la barba e ad aggiustarsi le basette, invigoriti da parole pesanti, pensate e mai dette; ma anche allegorie, metafore, curiosità spiegate brano dopo brano di una colata vocale effeminata, o forse solo cartone animato alcune volte. Canzoni in dialetto, intraducibili preghiere scoppiate da qualche parte e pronte a farlo anche qui magari fra un pò. Poesie poetiche, le preferite, ninnananne di una vita da bambini impegnata a contar le stelle e a dar fuoco a tutto il resto, rinunciando involontariamente alla sua normalità, perdendoselo dietro qualche falsa pubblicità o star del cinema. Seguire un sogno anche se là fuori c'è tutto a portata di mano, realtà che non è mai neanche per un attimo come su immaginazione. Nessuna cura per questa malattia, solo un catalogo di situazioni che la spiegheranno, la renderanno cronica, facendo coscienti di essa. Una bella tribolazione insomma, pronta a tenere compagnia se essere soli non è un caso.

Muisc by: Edda
Photo by: Sutura +

venerdì 5 febbraio 2010

LA X.

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In tutto questo tempo ho avuto il piacere di emozionarmi e addirittura di commuovermi alcune volte, cosa che nella "realtà" non dico esuli per presunzione ma sicuramente per mancanza di cause. Ebbene coll'inizio del sesto ed ultimo periodo, che vale un finale già dal primo momento, quella che non era proprio una sistematicità (anch'io, nonostante le indecisioni, riuscivo e riesco a preferire) s'è innescata naturale dentro, con la forza di certe immagini ad imprimere sulla sensibilità. La sensibilità e l'affezione, sembrano essere proprio loro le accompagnatrici di quest'ultimo viaggio che non merita aggettivi ossequiosi pronunciati da coloro contro cui io m'indegno, senza nulla togliere alle interrogazioni che magari prima facevano anche bene. Ciò che rimane è infatti talmente prezioso da non essere sprecato con la messa in discussione del suo valore solo per la chiarificazione o meno di certe situazioni: chi ha capito bene, chi vuole ricamare le sue teorie lo continui a fare sentendosi meno ammiratore di chi invece rimane silenzioso ad accogliere tutta questa magnificenza. Detto questo, passare al succo è una letizia. Il parallelo, da sempre il vero preferito, si apre e procede sino alla fine catturando la più totale attenzione mai dedicata. Star sdraiati ad osservarne le scene non è solo toccante, ma è come se esse riguardassero un pubblico diventato ormai partecipe di certe relazioni, di certi sguardi che si leggono e s'indovinano, e l'indovinarli è un qualcosa di incredibilmente vero, perché il tremore è vero e reale, e si accompagna a lacrime di complicità. Il parallelo non ha letteralmente tempo eppure tali sguardi e tali incontri sono gli stessi, rafforzati se vogliamo. Basta con poco accorgersi della condizione e delle posizioni per migrare dalla subitanea e presunta simulazione verso un nuovo ordine di rapporti che impressiona, perché è storia nuova, perché è "come sarebbero andate le cose se", perché il destino fa il suo corso anche senza l'isola. Se poi il tutto è accompagnato da un nuovo tema musicale pensato e studiato come sintesi d'insieme dei più struggenti, l'effetto di queste immagini almeno triplica. L'ascolti, rievochi questa e tutte le altre, piangendole. Intanto, nessuno manca e ognuno è conferma, che essa sia espressa latentemente o poeticamente resa in un dialogo come questo, per cui i ruoli non sembrano e non sono più gli stessi, per cui tutto ci si aspetta tranne che una tale indulgenza, come se i mali e ciò di appreso laggiù, in qualche modo esistiti, si lasciassero alle spalle e si cominciasse da capo una nuova conoscenza, magari con l'aiuto, perché niente è irreversibile. Una premessa tanto bella non diminuirà la fiducia per un seguito suo pari, perciò il conto alla rovescia riprende colla smania placata dalla durata di un contraccolpo ancora in atto.

Music by: Michael Giacchino
Photo by: ABC

giovedì 4 febbraio 2010

Red means beautiful.

Silent Screams. da Simone Luker.
Di chitarre in brani del genere ne ho sentite tante, forse troppe ('Guitar Man' di Sascha Braemer, da poco uscito, è la testimonianza calzante), ma, sebbene difficilmente eccellano, esse non perdono mai di efficacia, soprattutto dopo anni che non se ne udiva una tanto armonica e misurata a guidare il flusso ritmico in un ballo. E' per questo che subito mi propongo di non immergere la seguente in tale categoria di chitarre o brani che siano. Difatti, esploderei dalla smania contentata se mi trovassi in luoghi sabbiosi e afosi a intendere un tale connubio di accordi, prevedibile sì ma con quale gioioso stupore. Questo tipo di accoglienza è inibitrice per la ragione; provocando il tripudio di movimenti riflessi (autoctoni) fa somigliare il veglione messo su ad un orgasmo individuale che va a sommarsi con quello dei restanti, ma, quanto a me, in casi simili, prediligo il godimento, quello personale che nemmeno se fosse per l'esaudimento di un altro desiderio mi sc(r)ollerei dalla pista, o dalla spiaggia. A maggior ragione con l'esclusione, da delle caratteristiche ottimali, di tagli netti, improvvisi, di quelli che ti lasciano attonito e ti portano alle conclusioni più fittizie pur di non fare i conti con la realtà e con l'insensatezza di un'idea e della sua rispettiva creazione; ci si domanda il perché e si va alla ricerca di una traccia originaria; assurdità. Qui niente di tutto ciò, la fortuna è già compiuta quando si è all'ascolto, piacevole e distensivo da gustarsi fino in fondo, poichè il resto dell'opera, così come della sessione, non sarà certo gemello della prelibata esclusiva, questo più che sicuro. Adeguato ma sufficiente, incompleta l'incalzare di una musica così carica alla partenza da dispiacere colla prosecuzione e fine che soddisferebbero solo se il prologo fosse "così da meno". La conseguenza del fatto, come molto spesso si può osservare, è la ripetizione millenaria che sminuisce o esagera uscite del genere. Personalmente, ben vengano e, abbastanza astinente dalle situazioni un tempo vissute e qui ricordate, le auguro prossimamente, anche perché più facili da vivere che da descrivere. Le intepretazioni si sprecano e perciò l'indizio del titolo non è affatto male (intanto c'è, innestato o meno, un significato) per rimandare all'anteprima qui.

Music by: Modul
Photo by: Simone Luker

venerdì 29 gennaio 2010

My way.

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Quando abbandonerò la Svezia, continuerò ad ascoltarla da qualunque luogo in cui mi troverò proprio come facevo prima. Essa, a quel punto, non varrà né più né meno, già so, farà l'effetto traballante che attendo spasmodico ma che tuttavia fatico a definire nel pensiero, similmente al desiderio che ne faccio di un'attesa, che l'estate arrivi ma ghiacciata, che i prossimi contenitori di giorni possano risultare soddisfacenti, che la Svezia sia reale ma fuori dal mondo quale mio ricovero. Controllati per un attimo gli sbalzi d'umore, tutto ciò, risulta infatti il giusto accordo per una permanenza, questa come una qualsiasi, sofferta ma magica per ogni attimo rievocabile. Esattamente come la musica: la ascolti suggestiva, luccicante e rarefatta, in grado di inoltrare al corpo temperature diverse per ogni traccia; la conosci e ti avvicini a ciò da cui cerchi di allontanarti idealizzandola ogni giorno, perché così si fa, così è la strada, quella prevista per il sottoscritto. Ci è voluto un pò per inculcarlo in alcune teste, ma, quasi a fine giro, pare sia tutto vero, e a testimoniarlo un titolo che ancora una volta è leggibile azzeccato seppur scritto e pensato da quelle stesse persone maldestre, straordinarie se artisti. Forse una fortuna quella di poter, anche solo, assistere a tutto questo, che rende irripetibile ogni singola situazione per qualcun'altro. Forse questo fiocco di neve non doveva scendere prematuro, ma la sola idea di poterlo assaporare così fino in fondo, immerso e solo fra mosse straniere, mi inebria, tanto che vorrei non dover lasciare tutta questa freddezza, tanto che vorrei poter trasferire quel corso, il mio corso degli eventi, qui senza che esso possa cambiare. Impossibile, perciò lo racchiudo in questo ricordo. A tutti quelli che mi chiederanno cos'è stata la Svezia. I jj incontrano Lil Wayne e ne esce un capolavoro.


Music by: jj (featuring Lil Wayne)
Photo by: Sincerely Yours

sabato 23 gennaio 2010

10 buoni motivi per idolatrare Sheldon.

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Esistono rari personaggi validi nel mondo delle serie tv. Dico rari perché con validi intendo specificare quelli davvero brillanti, quelli talmente forti da permettersi di diventare idoli di qualcuno. Potrei contarli sulle dita di una mano, senza fatica disporli in ordine di gradimento, elencarne, per ognuno, almeno dieci buoni motivi per riconoscerli in quanto tali: mini eroi dalle svalvolate attitudini. Sheldon Cooper è uno di questi perché:

quando bussa alla porta è assolutamente riconoscibile e pertanto evitabile anticipatamente nel caso si trattasse di un favore avanzato in nome di un'amicizia come pratica sociale, un adattamento per extraterrestri in piena regola che è la furbata necessaria a una sopravvivenza più complicata.
2
· si compiace di far trapelare integralmente la propria ostinatezza in rapporto a una qualsivoglia causa lo interessi o minimamente lo renda curioso, scaricando addosso ai malcapitati tutta la sua pesantezza commista a ilarità che lo rendono reale più di molte altre invenzioni.
3
· quando va al cinema cerca il punto di acustica migliore, mediante prove vocali del tutto fuori dalla normalità di cui un individuo può godere.
4
· è l'essere abitudinario per eccellenza, tanto che, nel caso di imprevisti, gli riesce sempre di rivendicare tempo, spazio e modalità per portare a termine ogni piccolo e ingombrante pallino della propria routine (vedere per credere).
5
· vorrebbe controllare le persone come controlla Mario in Super Mario 64.
6
· concepisce i regali come formalità sociali spacciate per cortesie esplicative di bontà, ne scongiura l'inconsapevole arrivo, ma, soprattutto, manifesta una strana reazione se l'offerta ricevuta risulta impagabile.
7
· si considera troppo evoluto per poter imparare a guidare, definendosi 'Homo Novus'.
8
· non riuscendo a fare amicizia senza sembrare un pedofilo, ha ideato, grazie ad un libro per bambini, un algoritmo al fine di stringere primi legami con le persone.
9
· sono state formulate più ipotesi sul come potrebbe riprodursi; la più quotata, quella secondo mitosi, sostiene che egli possa dividersi in due Sheldon dopo aver mangiato un'enorme quantità di cibo thailandese.
10
· quando sorride è semplicemente terrificante.


Music by: Hot Chip
Photo by: The Big Bang Theory

giovedì 14 gennaio 2010

Not climb.

Jay Reatard  da MateusMondini.
Se qualcuno oggi, come ieri, mi domandasse quale artista preferirei sentire dal vivo, risponderei (con le dovute eccezioni del caso): Jay Reatard. Testimone qualcuno a cui l'ho detto e la cui replica è stata: "Ha appena suonato a Bologna". Peccato, che vi fosse del territorio non facilmente valicabile a separare lo spettatore dallo show. Peccato che qualcuno mi faccia notare all'istante del suo esser deceduto direttamente nel sonno. Ora poco importa se piace spacciare dediche come questa per piaggeria da groupie, fino a prima dell'estate un solo nome pesava come uno scoglio e pativo paura ad avvicinargli altri simili, in seguito l'istrionismo pareggiato da alcuni mi ha fatto garbare l'idea di una scena niente male, grottesca e tanto stramba (nel senso di pazza) da non essere mai sicuri e restare sempre incerti sul prenderli seriamente. Sbrigativo il più possibile, a partire da quel periodo, e nei supermarket in circostanze di assoluta apatia soprattutto, le giornate le passo accompagnato da un amico immaginario in più, evocabile a mio piacimento con un click (play), e, nell'esigenza, d'ora in poi le trascorrerò uguali a maggior ragione. E' però un'enorme remora ad accettare la notizia alla quale quasi non credo tuttora. L'occasione, in compenso (se così può definirsi), mi offre l'opportunità di celebrare e al tempo stesso impiegare tale sagoma per una limpida dimostrazione di quel che precisamente intendo quando individuo qualcuno come mio verosimile amico. Diverso dal sottoscritto, ma di un bonario (non fatevi fregare dall'antipatia che suscita nell'assomigliare fisionomicamente a Grignani) che rinuncerebbe a lussi e comodità pur di non avanzare uno sgarbo che conta e aggiunge calibro; e poi mi offrirebbe tante di quelle birre nel modo giusto che è proprio quello che ci vorrebbe per sentirsi, come dire, un pò meno spettatori e più assistenti, per lo meno. A portata di mano, l'ideale. Questo, non un ossequio ma piuttosto un bel modo per continuare ad ascoltare la tua musica con entusiasmo identico e con l'esaurimento che da qui in avanti di tanto in tanto si paleserà.

Troppo tardi, il segno lo hai già lasciato.



Music by: Jay Reatard
Photo by: Mateus Mondini