sabato 27 febbraio 2010

There is love in you.

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Per poter intonare, ballare e godersi l'ultima creazione di Kieran Hebden non è necessario masticarla a lungo quanto ho fatto io. Avrei potuto scriverne e rilasciarne il gusto e le risonanze libere addirittura durante il corso della sua prima riproduzione, bendato da un solo occhio (od orecchio) poiché già preparato da una 'Love Cry' di due mesi prima, surriscaldata abbastanza da volerne sentire il missaggio col resto, ma ho perso l'attimo, quindi mi riparo dietro una scusa non propriamente concreta e definita avente come protagonista il susseguirsi di tempi morti e l'aumentare della pigrizia a corrergli subito dietro. Arriva perciò solo adesso il momento di questo disco, che è il risultato o l'equazione fra la facilità di ascolto e l'incomprensibilità di composizione: opera di maghi. Sprigiona colori, visioni di danze private, di lap dance in versione illustrata e animata, sprigiona echi ed eliche risonanti tutto intorno a loro ('Reversing'); che diavoleria, che laboratorio di brevità fatte suoni scoppiettanti, crescenti di volta in volta a riempire uno spazio che altrimenti starebbe vuoto, probabilmente sospeso, perché, con tutta franchezza, pare che il portento britannico assembli musiche come se si trattasse di lego giocattolo, a caso ma con una compostezza e una precisione impeccabile, ricercata, infallibile se l'intento è di colpire e mettere a terra. Da sdraiati risulta infatti più agevole sognare e seguire le vibrazioni soniche che da informazioni prendono forma e diventano caramelle, senza escludere le tortuosità di un sogno, sempre poco vigili così da rimanere sorpresi e appagati il doppio ad ogni rivelazione. E in questo concentrato extrappetitoso, di rivelazioni ce ne sono tante, alte quanto vette, oltre alle già citate. Sprecherò buone parole chissà da chi contate, lasciandomi accarezzare troppo ed emozionare oltremodo anche questa volta? Come lo si potrebbe permettere di fronte a tanta proporzione e giustezza? Qui il capolavoro (sfiorato) si esaurisce sancendo la fine del sonno e pure della veglia. Come al solito il ricordo non più vivido del viaggio appena terminato è solo brandelli, poco si può scavare nella memoria seppur il segno da qualche parte, lecitamente inciso, risieda. Four Tet scrive altre nove tavole nello spazio aperto e con una penna di quelle invisibili.


Muisc by: Four Tet
Photo by: IHousephilly

giovedì 18 febbraio 2010

Let the right one in.

Let the Right One In da martin francisco.
Una fantastica storia bianca in slow-motion. L'orrore per questa volta può pure starsene a casa. Chi ha notato questa pellicola per il gusto di godersi qualche attimo di paura, aspetti il prossimo remake statunitense perché ha sbagliato film. Perché sarà un altro film. Completamente. In questo, si tratta infatti la drammaticità del linguaggio come convenzione, della morale che all'estremo ottenebra i rapporti empatici, clandestini e sovrumani di due ragazzini e del loro più che particolare amore, con l'aspetto orrifico che è soltanto scenico (di tributo) e di contorno a tutto il resto. Una creazione che ha dell'invidiabile, amabile perché irreale ma efficace con violenza nel contemporaneo (svedese); un autentico contrasto con la c maiuscola. Di toni e di temperature, di suoni e di emozioni, di parole e di silenzi, e di gesti, ad imbottire di equilibrio la favola più rivoluzionaria mai scritta. E non si tratta di uno sbalordimento ingiustificato: durante la sua visione non è difficile accorgersi della delicatezza che sconfina oltre le atmosfere e i paesaggi, inondando di neve e di sofficità l'animo dello spettatore; ugualmente interrogarsi sulla presunta, ma reale, irruenza di certe dinamiche, che hanno un tema forte come quello dell'impossibilità alla propria base. Un accompagnamento magistrale fa poi da colonna sonora di certe scene mute, a coprire i silenzi con una vastità d'audio calibrata, protagonista e tanto lieve quanto le immagini che nel mentre scorrono, persi ad osservarle abbagliati da un grande e immenso bianco vivibile che da sempre affascina. Piacerebbe tanto tuffarcisi dentro? Forse lì per lì, perché poi tutto perderebbe di una certa e ancora indefinita "comodità di osservazione", irraggiungibile se a riconoscere se stessi si è in prima persona. Quindi, per il momento, è troppo confortevole questo alienante punto di vista per poter cambiare idea contro la natura attuale delle cose, soprattutto con un arrivo del genere. Inaspettato, ribolliva in disparte assoggettato da scarsi pareri e da un preconcetto inspiegabile (forse tutte quella nera e sbagliata "pubblicità"); che riscatto in centonove minuti, abbondante se non pieno da sbancare ed affermarsi preferito con la partecipazione unanime di tutte le componenti. Piccolo capolavoro.

Muisc by:
Johan Söderqvist
Photo by: Martin Francisco

martedì 9 febbraio 2010

Milano.

Naviga. da Sutura +.
All'inizio di ogni nuovo anno mi capita spesso di scoprire qualche bel mattone di musica cantautorale dell'anno prima che s'impone deciso e incontrastato per il resto dei mesi almeno fino all'estate. E in ciascun caso il riconoscimento di una possibile immedesimazione mi è particolarmente difficile, nonostante l'immedesimazione divampi già al primo ascolto. Succede a causa dei dannati testi che questi si dilettano a scrivere; storie dilaniate, vicine e lontane per ciò che dicono, più equivocabili che altro; la "libera" interpretazione, infatti, mi lascia in bocca un gusto di peccato che ci metto due secondi ad accorgermi di me dalla parte di chi non capisce anche se non è così. Un problema che mi si torce contro volentieri, per il quale vedrò di rimediare senza la rinuncia a certe proprietà individuali. La musica, questa musica, è comunque anche altro, giusto o sbagliato che sia. Abitare Milano non mi appartiene, io sono più da provincia, dove la dispersione è impossibile e dove l'atmosfera si fa meno diversificata, eppure non mi è difficile avvertirla per quello che è: perturbante. Omaggio a un nome proprio di città, alla grandezza dei suoi quartieri tanto playground di giorno quanto selvaggi e disagevoli di notte, non meno importante, a chi ci vive facendo conoscenza con tutto questo dalla nascita o da quando lo vuole. Il godimento è spalmato omogeneo e la compenetrazione in alcuni versi avviene automatica, davanti allo specchio a togliersi la barba e ad aggiustarsi le basette, invigoriti da parole pesanti, pensate e mai dette; ma anche allegorie, metafore, curiosità spiegate brano dopo brano di una colata vocale effeminata, o forse solo cartone animato alcune volte. Canzoni in dialetto, intraducibili preghiere scoppiate da qualche parte e pronte a farlo anche qui magari fra un pò. Poesie poetiche, le preferite, ninnananne di una vita da bambini impegnata a contar le stelle e a dar fuoco a tutto il resto, rinunciando involontariamente alla sua normalità, perdendoselo dietro qualche falsa pubblicità o star del cinema. Seguire un sogno anche se là fuori c'è tutto a portata di mano, realtà che non è mai neanche per un attimo come su immaginazione. Nessuna cura per questa malattia, solo un catalogo di situazioni che la spiegheranno, la renderanno cronica, facendo coscienti di essa. Una bella tribolazione insomma, pronta a tenere compagnia se essere soli non è un caso.

Muisc by: Edda
Photo by: Sutura +

venerdì 5 febbraio 2010

LA X.

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In tutto questo tempo ho avuto il piacere di emozionarmi e addirittura di commuovermi alcune volte, cosa che nella "realtà" non dico esuli per presunzione ma sicuramente per mancanza di cause. Ebbene coll'inizio del sesto ed ultimo periodo, che vale un finale già dal primo momento, quella che non era proprio una sistematicità (anch'io, nonostante le indecisioni, riuscivo e riesco a preferire) s'è innescata naturale dentro, con la forza di certe immagini ad imprimere sulla sensibilità. La sensibilità e l'affezione, sembrano essere proprio loro le accompagnatrici di quest'ultimo viaggio che non merita aggettivi ossequiosi pronunciati da coloro contro cui io m'indegno, senza nulla togliere alle interrogazioni che magari prima facevano anche bene. Ciò che rimane è infatti talmente prezioso da non essere sprecato con la messa in discussione del suo valore solo per la chiarificazione o meno di certe situazioni: chi ha capito bene, chi vuole ricamare le sue teorie lo continui a fare sentendosi meno ammiratore di chi invece rimane silenzioso ad accogliere tutta questa magnificenza. Detto questo, passare al succo è una letizia. Il parallelo, da sempre il vero preferito, si apre e procede sino alla fine catturando la più totale attenzione mai dedicata. Star sdraiati ad osservarne le scene non è solo toccante, ma è come se esse riguardassero un pubblico diventato ormai partecipe di certe relazioni, di certi sguardi che si leggono e s'indovinano, e l'indovinarli è un qualcosa di incredibilmente vero, perché il tremore è vero e reale, e si accompagna a lacrime di complicità. Il parallelo non ha letteralmente tempo eppure tali sguardi e tali incontri sono gli stessi, rafforzati se vogliamo. Basta con poco accorgersi della condizione e delle posizioni per migrare dalla subitanea e presunta simulazione verso un nuovo ordine di rapporti che impressiona, perché è storia nuova, perché è "come sarebbero andate le cose se", perché il destino fa il suo corso anche senza l'isola. Se poi il tutto è accompagnato da un nuovo tema musicale pensato e studiato come sintesi d'insieme dei più struggenti, l'effetto di queste immagini almeno triplica. L'ascolti, rievochi questa e tutte le altre, piangendole. Intanto, nessuno manca e ognuno è conferma, che essa sia espressa latentemente o poeticamente resa in un dialogo come questo, per cui i ruoli non sembrano e non sono più gli stessi, per cui tutto ci si aspetta tranne che una tale indulgenza, come se i mali e ciò di appreso laggiù, in qualche modo esistiti, si lasciassero alle spalle e si cominciasse da capo una nuova conoscenza, magari con l'aiuto, perché niente è irreversibile. Una premessa tanto bella non diminuirà la fiducia per un seguito suo pari, perciò il conto alla rovescia riprende colla smania placata dalla durata di un contraccolpo ancora in atto.

Music by: Michael Giacchino
Photo by: ABC

giovedì 4 febbraio 2010

Red means beautiful.

Silent Screams. da Simone Luker.
Di chitarre in brani del genere ne ho sentite tante, forse troppe ('Guitar Man' di Sascha Braemer, da poco uscito, è la testimonianza calzante), ma, sebbene difficilmente eccellano, esse non perdono mai di efficacia, soprattutto dopo anni che non se ne udiva una tanto armonica e misurata a guidare il flusso ritmico in un ballo. E' per questo che subito mi propongo di non immergere la seguente in tale categoria di chitarre o brani che siano. Difatti, esploderei dalla smania contentata se mi trovassi in luoghi sabbiosi e afosi a intendere un tale connubio di accordi, prevedibile sì ma con quale gioioso stupore. Questo tipo di accoglienza è inibitrice per la ragione; provocando il tripudio di movimenti riflessi (autoctoni) fa somigliare il veglione messo su ad un orgasmo individuale che va a sommarsi con quello dei restanti, ma, quanto a me, in casi simili, prediligo il godimento, quello personale che nemmeno se fosse per l'esaudimento di un altro desiderio mi sc(r)ollerei dalla pista, o dalla spiaggia. A maggior ragione con l'esclusione, da delle caratteristiche ottimali, di tagli netti, improvvisi, di quelli che ti lasciano attonito e ti portano alle conclusioni più fittizie pur di non fare i conti con la realtà e con l'insensatezza di un'idea e della sua rispettiva creazione; ci si domanda il perché e si va alla ricerca di una traccia originaria; assurdità. Qui niente di tutto ciò, la fortuna è già compiuta quando si è all'ascolto, piacevole e distensivo da gustarsi fino in fondo, poichè il resto dell'opera, così come della sessione, non sarà certo gemello della prelibata esclusiva, questo più che sicuro. Adeguato ma sufficiente, incompleta l'incalzare di una musica così carica alla partenza da dispiacere colla prosecuzione e fine che soddisferebbero solo se il prologo fosse "così da meno". La conseguenza del fatto, come molto spesso si può osservare, è la ripetizione millenaria che sminuisce o esagera uscite del genere. Personalmente, ben vengano e, abbastanza astinente dalle situazioni un tempo vissute e qui ricordate, le auguro prossimamente, anche perché più facili da vivere che da descrivere. Le intepretazioni si sprecano e perciò l'indizio del titolo non è affatto male (intanto c'è, innestato o meno, un significato) per rimandare all'anteprima qui.

Music by: Modul
Photo by: Simone Luker