lunedì 14 settembre 2009

L'alone mensile di cui parlavo: "Elettricita" by Havergal.

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Questa non è una macchia appiccicosa pronta ad essere lavata via ad Ottobre. Questo è il disco che ora più che mai mi rappresenta, comprendendo i funerali interiori e la sindrome, quella che porta in un primo momento a visualizzarsi dentro la serie tv, in un secondo ad accorgersi della ribellione che nell'Io è in atto, e che bisogna lasciare stare. Uomini annegati, tracce senza titolo e senza identità, nuove allegorie di anguste figure mitologiche, biografie che sono resoconti di reduci di guerra; il risultato è l'allarme incessante che sgorga da questi ultimi giorni: durante il dormiveglia automobilistico; mentre la luce lunare dissacrava i nostri volti; e persino nel più somigliante nido di quel ritorno, non riprodotto e perciò alternativo e misero di rapporti pari a quelli autentici. Potrebbe intonare se stesso come una frequenza per i prossimi dieci mesi, potrebbe ripetere quelle stesse note all'infinito e raccontare la sua storia tanto da mandare in tilt il contatore che non assisterei nemmeno psicologicamente per un attimo alla morte di piacevolezza dentro, in macchina e nell'anima. Emozioni inesplicabili in reverse, e giochi di ombre in un clima di tiepidezza generale, che in qualche modo refrigera il tutto e stordisce al suo scadere: il sonno sopraggiunge sugli occhi, le membra si fanno deboli in un plastico di movimenti e spostamenti ineluttabili ma innocui, a dimostrazione di un'inettitudine personale paragonata e avversa a una mondiale cospirazione di soldati tutti uguali, che combattono per cancellare ogni qualsiasi tipo di diversità esistente quale minaccia alla mediocrità e all'adagiamento universale. C'è di mezzo Dio, il panico generale, e una lotta impari fra ciò che è relativo, sempre. Io, fra i pochi, decido di buttarmi con il paracadute, in modo da riparare temporaneamente in terre straniere e selvagge, salvandomi dalla ferocia di uomini sregolati che costituiscono il fulcro di una società che porta avanti il mondo in un modo che altrimenti non saprei ancora bene immaginare nè tanto meno regolamentare. Sembra un percorso disegnato dal destino quello che ha portato questa musica alle mie orecchie, e lo scrivo ascoltando le successioni organistiche sdolcinate di una cronaca sciolta e lenta quanto lumache al sole. Un valido appiglio sfumato di suoni e di colori opachi e grigi, contorto e sdraiato nella sua interezza impalpabile. Ha appoggiato le sue mani sul mio profondo mentre guidavo, e da allora recita: "you can leave here, if you can leave here".

Music by: Havergal
Photo by: Javiy

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